Il passato è uno sterminato territorio che è altrove nel tempo ma è anche dentro di noi, stratificato, difficile da riconoscere ma presente.

Di chi è il passato? L’ambiguo rapporto con l’eredità culturale, e (2014) è il titolo di un libro in cui rifletto sul rapporto fra i contemporanei e il passato, sullo spazio che ha nella nostra cultura, nella collettività e nelle politiche culturali.
Questo è in fondo il tema che mi definisce, nasce dal desiderio di immaginare come l’eredità culturale possa parlare a una parte più ampia della società, a partire da come si rappresentano gli oggetti, dai modi e dai luoghi in cui si conserva e si trasmette la conoscenza del passato.
Cerco di comprendere come i contenuti della memoria entrino nel nostro presente e gli diano forma, volto ed emozioni. Solo questa compenetrazione fra oggetti, significati e generazioni attuali è valore, e solo questa (e non a prescindere), dà luogo ad una componente economica dell’eredità culturale.

Questo è il mio impegno:
allargare la base sociale che interagisce con i contenuti storici e culturali, trasmettere l’idea che il passato non sia affatto una storia conclusa, ma al contrario una memoria scritta nel nostro archivio interiore, da decifrare e interpretare nel tempo presente. Oggi con la public history lavoriamo finalmente a una memoria culturale – materia e significati – che coinvolga i non addetti ai lavori, la società che ha nelle sue mani il destino di ciò che ci è stato trasmesso.
In questo senso guardo all’innovazione sociale come pensiero critico e sperimentale che cerca risposte aderenti al nostro tempo, tra queste la conquista dell’empatia con il patrimonio culturale, non solo pietre e istituzioni, ma l’impasto di cui siamo fatti. Ora che l’umanità vive tempi eccezionali dovremmo impedire che la percezione del passato si riduca ad un’esposizione – reale e simbolica – di oggetti gloriosi, scelti come bandiera della nostra passata grandezza.

Una nuova mediazione
Ecco che la consapevolezza di questo trama ininterrotta di relazioni fra la cultura e le altre dimensioni della società richiede i contenuti e i metodi per una nuova mediazione fra l’enorme potenzialità di contenuti culturali e gli abitanti che non ne godono, se non in misura minima. Una mediazione partecipata che si sviluppi dal basso nelle politiche culturali, nella progettazione, nella governance dei processi e dei progetti.
La società ha bisogno di tempo per sviluppare logiche adeguate a un uso non riduttivo e ripetitivo dei media, la nouvelle écriture multimediale, come ogni linguaggio, s’impara usandola. Molte relazioni sul web e i significati che ne scaturiscono sono potenziali, non si attuano se non attraverso l’individuazione di bisogni informativi e conoscitivi. Utilizzare i media disponibili per attuare le relazioni potenziali, porre ai dati le domande che servono, progettare trame narrative, potrebbe aiutare la popolazione a ritrovarsi nel paesaggio culturale in cui abita, fare di questo ritrovarsi il protagonista del lavoro culturale. È vero che la progettualità crossmediale richiede l’acquisizione di pensiero e sguardo multimediale/multidisciplinare ed è compito della formazione far sì che nuovi contenuti dei profili professionali o anche nuovi profili (per es. digital collections curator, web content creator, web editor) si affermino non in contrasto con i saperi consolidati ma in stretta interazione (“con” non ”o”). Neanche il digital heritage è un mondo a parte, è un fluire continuo di significati con il mondo materiale che lo esprime.
In un paese come l’Italia in cui il passato scorre nelle vene degli abitanti, per lo più a loro insaputa, serve urgentemente mettere al centro delle politiche e dei programmi, il coinvolgimento e la partecipazione delle persone. Compito che non ha trovato molto spazio nelle nostre storiche attitudini e che richiede competenze, metodi e sensibilità specifiche. Un terreno che per ragioni storiche e formative abbiamo arato poco e male, forse per questo è stata accettata con molte riserve la crescita a partire dagli anni ’70 della così detta cultura di massa. Si potrebbe anche dire che solo l’irrompere delle scienze gestionali anche all’interno delle istituzioni culturali ha fatto emergere la necessità di focalizzarsi sull’allargamento del pubblico. Non è dunque un caso che il valore della divulgazione, il public development, il community engagement e la stessa public history, si siano sviluppati nell’ambiente anglosassone dove il rapporto con il pubblico è centrale ed è prassi la diffusione dei risultati della ricerca e delle attività.
La rete e la collettività si modificano reciprocamente, per questo la rigida modalità dicotomica e escludente con cui storicamente affrontiamo i conflitti reali, potenziali (e anche supposti tali), la verticalità e le gerarchie, coesistono con le spinte della cultura digitale e dell’economia circolare. La logica digitale, operando per pertinenza e relazioni non escludenti, riesce ad affermarsi e progressivamente interviene sul nostro modo di guardare alla realtà. Cambiando, e non di poco, le coordinate del sapere emergeranno progressivamente i caratteri di una diversa mediazione culturale. Una mediazione con un’attitudine attivamente connettiva e non giudicante, o tanto meno, svalutativa del livello culturale degli interlocutori, per coglierne il patrimonio conoscitivo, i sentimenti diffusi, i confini nelle mappe interiori delle comunità, e la fluidità dell’organizzazione sociale. Sembra in effetti che nella nostra epoca le cose succedano ai confini dove gli assetti consolidati s’incontrano, si scontrano e si modificano reciprocamente. Ciò non implica necessariamente sottrazione del passato e dei saperi specialistici quanto piuttosto la crescita di linguaggi che nello scambio aumentano la capacità di analisi, comprensione e risposte al presente.
- Madel Crasta, Ritrovarsi: nei luoghi e nei confini, in Il capitale culturale, supplementi, Eum Edizioni Università di Macerata 11/2020. [download pdf]